lasciando la coscienza per un pò

nuova settimana di lavoro, nuove turbe che attanagliano le anime, nuove malattia che mi passano di fronte e che mi lasciano oramai sommessamente indifferente: come fare altrimenti a sopravvivere alle giornate che si susseguono ogni giorno uguali a se stese?
la mattinata si trascina lenta e dolente, chiusi nel loculo con le finestre oscurate, in ascolto delle voci di corridoio che commentano le circolari che girano per le stanze: chi dice che da ora in poi saremo costretti a portare il certificato anche solo per un giorno di malattia, no io ho sentito da due in poi, ma tanto a me la visita legale viene sempre quindi la cosa mi tange molto poco. altra voce che fa tremare le vene ai polsi di alcuni colleghi è che si debba assolutamente, senza defezione, timbrare la mattina alle sette, non sono ammessi scivolamenti di orario dalle otto alle due, mi raccomando. gente che prima delle otto non sporge il senso si sente morire, ma forse è solo per gli aziendali, nono, sembra che sia così per tutti.
e le ore passano, noi qui, in attesa che il paziente si sappia se si può chiamare o no, perché ancora le prove crociate per il sangue non sono state fatte, quindi se ci vuole il sangue, e ci vuole il sangue, si deve fare prima le prove.
alle nove mi chiedono se voglio qualcosa dal bar e mi faccio prendere un tramezzino e una coca, almeno la pancia piena mi rende più socievole.
ma in fono a me non importa nulla, sono qui, di fronte allo schermo, che navigo attonita, di fronte al tempo della mia vita che butto in lente ore in questa stanza.
lo sguardo si sforza attraverso i vetri oscurati delle finestre di capire che tempo mi aspetterà tra... tre ore? si tra tre ore dovrei uscire e vedere il cielo; forse piove, o forse no, ma non importa, appena supero la porta d'ingresso di solito mi si allarga il cuore e respiro meglio.
oggi devo anche accompagnare mia suocera dal commercialista, poi devo mettere su il pane e poi mi sa che mi faccio anche un riposino.
ho da fare anche il cambio per revisionare il guardaroba.
tutto questo passa nella mente e sono le nove e quaranta quando squilla il telefono per avvertire che il paziente può essere chiamato.
alleluia, il signore ha parlato.
nulla cambia, la mia collega che pisola sulla panca si limita a coprirsi meglio, l'altro si gira sulla brandina, tanto prima che arrivi qui ci vorrà almeno un'altra mezz'ora quindi perché agitarsi?
anche io non mi scompongo, continuino a digitare tranquilla, tanto nulla cambia in questo immobilismo, e se faremo tardi sarà di sicuro colpa nostra, o degli infermieri, o degli anestesisti... la colpa viene sempre scaricata su questo posto di bassa manovalanza quindi perché prendersela calda??
ora le figure che passano lontane dalle finestre, oltre il cancello hanno l'ombrello aperto, ed io per un momento immagino il gelo delle gocce sul viso mentre cammino senza copertura, immagino il vento leggero che raffredda e porta via il tepore primaverile che iniziava ad arrivare.
entrano le prime persone nella stanza, gli anestesisti che cominciano a giungere per il paziente e che comunque sono interessati ad altro; come noi sono anestetizzati, come noi oramai si muovono lenti, in questa sensazione di lentezza e di sonnolenza che avvolge tutto e tutti.
il tempo passa, sono oramai le dieci ed ancora non è giunto il paziente, ma tanto il collega deve pensare a rimettere a posto il portatile di uno degli anestesisti, mentre l'altra, quella che si accartocciava sulla panca si è spostata sulla brandina lasciata libera.
tra poco dovrebbe riscendere anche la capa, che è andata a portare i documenti di presenza un'oretta fa circa, o forse le pieghe dimensionali di questa struttura elefantiaca ad obsoleta alla fine hanno ingoiato anche lei; tra qualche giorno si avvieranno le ricerche e ne troveranno il cadavere essiccato come fossero passati dei secoli in qualche soffitta, o giù, nell'ipogeo, come lo chiamano quelli acculturati, i tunnel dell'orrore, come li chiamiamo noi che ci passavamo ogni giorno per venire al lavoro.
anzi, loro: io cerco sempre di passare fuori, la sensazione di libertà che mi dà l'aria aperta val bene un poco d'acqua o quei cinque minuti in più che co vogliono per raggiungere la metro.
il tempo passa, lento ma inesorabile. se sono le dieci ed il paziente dovrebbe arrivare ora, forse, prima delle undici, undici e mezza non sarà in sala, tra una cosa e l'altra. poi prepari passi i tubi attendi il drappeggio e di nuovo in attesa mentre isolano la mammaria.
il collega del pomeriggio sarà contento, non si annoierà.
sono le dieci e un quarto, poi oggi non tocca nemmeno a me stare in sala quindi non c'è proprio nulla che mi turba.
si credo che passerò il pomeriggio a giocare a lo tengo lo butto, per vedere cosa rimarrà del mio guardaroba sempre più minimalista e sempre più in attesa di nuovi capi.
potrei anche tagliare i nuovi calzoni, se mi gira, o almeno il modello, ora ci penso, tanto ho la mattinata per farlo.
ancora due ore e tre quarti prima di uscite, si contano anche i minuti da queste parti.
mi voglio comprare il portatile nuovo, così da dare il mio vecchio a Odo, ma sarà tra un poco la cosa, prima troppe variabili sono in ballo, troppi problemi si possono frapporre al nostro benessere in vista delle future elezioni.
odo dipende in maniera molto più concreta di altri dal loro andamento: vedremo cosa ci riserva il futuro.
mi ha anche scritto il ragazzo con cui mi devo scontrare: lui e i suoi nani del caos sono pronti in qualunque giorno della settimana, ma io? e le mie Micette? ci devo pensare. soprattutto devo vedere quando posso portarmi anche Lui, che se è al lavoro fino a a tardi salta tutto.
trambusto fuori dalla porta: forse è giunto Gozer il Gozeriano, Gozer il Distruggitore, o forse è finalmente arrivato il paziente e devo fare la cartella.
deve aver smesso di piovere, la gente passa di nuovo senza ombrello.
rientriamo nel mondo va, che forse ogni tanto un'occhiata non fa male.
ci sentiamo alla prossima.

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