malinconica lamentazione di un giorno come tanti

Oggi è sabato.
un sabato che avrei passato molto volentieri dormendo, carezzata dalla frescura appena riguadagnata da questa stagione riarsa, e che invece mi tocca passare al lavoro, con gli occhi gonfi del sonno che non hanno avuto, e la testa pesante delle cose che vorrei fare ma che alla fine non farò.

oggi mi sento malinconica mentre guardo dalla finestra ed ascolto il vociare delle infermiere fuori dalla mia stanza, occupate nel rifornimento, svogliate dalla mattina, garrule come giovani oche alla guazza.
io penso a Maurizio, in questo momento placidamente addormentato, o a Merlino che sarà dalla mia parte del letto, con le zampine sotto la testa, nella posizione che di solito assumo io quando dormo. oppure a Sardil che si sarà acciambellata sul gioco e dormirà con la pancia mezzo esposta e la linguetta tra le labbra, rosa ed appena visibile, mentre la coda a piccoli scatti si muove nel sogno.
oppure alla vecchia, Morgana, che si è ricavata un angolino da batcaverna sotto i DVD recorder, e si rifugia li per essere accanto a noi ma non disturbata dagli altri due, ed ogni tanto sporge la tersa da tartagatta dalla sua caverna per vedere il mondo e miagolargli il suo scontento.
il mio pensiero è alla sensazione di quiete e di pace che ci deve essere in questo momento tra le mura di casa mia, dove tutti dormono, tranquilli, e provo un desiderio di tornare li, di non uscire da quelle mura, di trovare qualcosa che mi permetta di non aver più bisogno di lasciare quel rifugio sicuro.
il tempo brutto ci favorisce, oggi passeremo la giornata tranquilli, soli nella nostra solitudine dorata dove non abbiamo bisogno di niente, a bearci della nostra compagnia e del divertirsi dei gatti, che felici della nostra presenza ci allieteranno delle loro corse e dei loro giochi.
anni fa desideravo una vita che fosse tutt'altro: provavo per la vita di famiglia un sacro terrore, anche se si sarebbe rivelata una vita ben diversa quella di cui avevo paura. l'essere legata alla figura di donna di casa, obbligata in quella figura e senza sbocchi, legata alla catena della casalinghità. quando ero diciottenne vedevo quella me in bigodini e straccio per le polveri e ne provavo terrore, come se quella fosse la fine di tutto e non ci fosse che la fuga.
oggi guardo quella che ero e vedo che la mia fuga in fondo non mi ha portato da nessuna parte e quell'immagine che avevo era deformata da preconcetti e strane influenze esterne. oggi la casa è il mio rifugio e la mia salvezza, e se potesse lascerei il mondo secolare per la tranquilla clausura della famiglia, una famiglia che non mi lega ne mi obbliga, perché è costruita secondo i miei desideri e le mie aspettative, su misura per me, grazie a chi ha fatto la stessa cosa su misura per se ed è riuscito a far coincidere i due desideri.
passare le nostre giornate dividendoci i compiti, pulite la sala, mentre lui lava la cucina e si lamenta di come riduco sempre i fuochi ogni volta che cucino, chinare la testa di fronte alla routine del rigurgito di Merlino e decidere a chi tocca questa volta di straccio e disinfettante, scandire il trascorrere della giornata tra la preparazione del pranzo e della cena, con la compagnia della televisione che blatera del mondo in sottofondo.
provo una tenerezza per l'immagine di me in quel contesto che stride con quella che provavo allora, ma allora non sapevo ancora tante cose, soprattutto su di me, e mi illudevo che ancora il mondo fosse una melagrana da cui prendere tutto il succo di questa vita.
oggi mi accontento di una fetta di tranquillità, di vivere quella pace che mi sono costruita in tanti anni di ricerca, mi accontento di avere una isola sicura, un mare attorno abbastanza sicuro, con gli amici a fare da faraglioni contro i peggiori marosi, e sopporto di dover alzare la vela ogni giorno per affrontare l'ignoto.
oggi l'ignoto non è più il futuro, è tutto il resto che non è il mio mondo.
a volte l'ignoto si fa minaccioso, e ostile, a volete si limita a una ostilità sopita, lasciata li, come ignorata, ma pronta a mordere ad una distrazione.
mi sento più sola quando sono fuori, in mezzo alla gente di quando sono sola in casa mia, dove so che tornerà solo chi vale nel mio mondo, perché io valgo nel suo.
spesso ultimamente mi sento solo un rametto tra i tanti portati dal vento, e ho come la sensazione di aver perso qualsiasi possibilità di valore intrinseco. quello che faccio, al di fuori della ristretta cerchia del mio castello, è un semplice movimento di leve, potrebbe farlo chiunque, non ha valore in se perché sono io a farlo. ciò che faccio, il mio contributo al mondo non ha valore in se, e sono una parte, ignorata, di un tutto che in fondo non ricorderà mai nessuno. ed io non ho valore in quanto persona, ne in quanto parte dell'opera. se oggi venissi improvvisamente sostituita da qualcuno ci sarebbe giusto una leggera sorpresa, un attimo di disappunto e nient'altro. non produco nulla di concreto e la cosa mi strugge, perché io sono nata artigiana: ho bisogno di creare qualcosa, di vedere il frutto del mio lavoro nascere, crescere grazie al mio impegno, avere consistenza e duratura, essere visibile a tutti, perché l'ho fatto io, e l'ho fatto come non avrebbe potuto farlo nessun altro, ne meglio ne peggio, ma in maniera assolutamente unica perché mia.
una volta a Grosseto c'era un bugigattolo, una cosa piccina picciò in cui un uomo anziano abitava e lavorava. si metteva sulla porta con la sua sedia, un'altra tra le mani e seduto li, sotto il sole di primavera, al coperto nella calura dell'estate, all'interno nel freddo dell'inverno, impagliava sedie, con movimenti rapidi e precisi, le mani indurita dalla paglia, tranquillo e probabilmente in pace con se stesso.
penso spesso a quell'uomo e lo invidio. invidio la soddisfazione di sentire le mani occupate ed il pensiero libero, la stanchezza del fisico per il lavoro fatto, la soddisfazione dell'occhio che si posa su quanto già prodotto. anche io nella mia vita ho avuto queste soddisfazioni, quando lavoravo ad esempio come costruttore di stand alla fiera di Roma: la schiena a pezzi e la stanchezza in ogni fibra del corpo, ma la soddisfazione del lavoro fatto, del poter dire, quella parte l'ho fatta io, io ho steso quella parte di moquette, ho tirato su quella parete, ho portato quei mobili.
da quanto quella soddisfazione è limitata a ciò che faccio nel mio castello mi pare esile come una parete di fumo: il vestito che ho cucito io, la cena che ho cucinato, la coperta che ho fatto. ma questo non mi basta: quello che produco non lo sento mio, al di fuori di casa, e non mi da nulla.
che donna impossibile che devo apparire a volte, sempre pronta a lamentarsi, mai soddisfatta, mai completamente contenta e così di rado serena.

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